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Tamerisco III parte seconda

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III

 

Le confessioni di Mario Cabrini

 

Percorrevo viale Atena sotto una cappa d’afa rovente; i vestiti attaccaticci sulla pelle umida. Il viale sembrava senza fine, misurato dal persistere del suono delle rare macchine trascorrenti con ronzio sonnacchioso. Immerso in fantasticherie che non posso riferire, deviai per le strade vecchie, più ombrose. Adelina a quell’ora era a passeggio con la madre nella deliziosa via crucis delle vetrine del centro. Certamente indossava la camicetta viola semitrasparente e la gonna bianca, aderente ai fianchi teneri. La sua pelle chiara e morbida come un letto di petali non sudava, ma traspirava soavemente. Avrei preso volentieri il treno per andare da lei, ma nel pomeriggio non c’erano treni e poi dovevo gustarmi quel breve periodo di libertà, quell’occasione di appartenere a me stesso. Sicuramente quando sarebbe tornata avrebbe avuto voglia di fare l’amore, ed io pure. Erano quelli i momenti più belli, oppure, per troppe aspettative, i più fallimentari.

 “Si, faremo proprio l’amore” Mi dicevo, quando vidi un uomo alto, massiccio, sportivamente, riccamente vestito, che mi osservava con ampio divertito sorriso. Dietro di lui la porta rosa, il cartello verde scritto a mano che mi era, non capivo come, familiare. Mi fece un caloroso, amichevole saluto e dopo alcuni secondi riconobbi Mario Cabrini. Vagabondando ero giunto in via Piave. 

“Come mai da queste parti?” mi chiese stringendomi la mano con vigore. Come potevo spiegare che camminavo sopra pensiero e che il mio inconscio, avendo una gran voglia di fare l’amore, mi aveva condotto davanti alla lavanderia dove avevo veduto per l'ultima volta Susanna? Risposi evasivamente ponendo a lui la medesima domanda.

Se io risposi in termini generici, lui non diede alcuna risposta e prendendomi sotto braccio s’incamminò per il marciapiede. Mi propose di andare a cena insieme e, nonostante i miei ripetuti dinieghi causati dall’innata timidezza, fu irremovibile. Alla fine cedetti per paura che si offendesse. 

La lussuosa Maserati azzurra saliva silenziosa, senza sforzo per la strada tortuosa delle colline . Il tramonto spandeva rossastre chiazze di luce sul verde smeraldo dei prati. Boschetti di querce, qua e là risparmiati alla foga delle coltivazioni, cominciavano a incupire. Andavamo ambedue assorti nei pensieri. Sognavo la mia vita all’università: giornate trascorse nell’ombra odorosa di cuoio e pergamena della sezione manoscritti rari della biblioteca, non più impiegato ma ricercatore riverito dai dipendenti. Non avrei immaginato prima senza repulsione di trovarmi dietro la cattedra ad ascoltare studenti intimoriti, a sorridere davanti ad ogni loro indecisione, balbuzie, dimenticanza. Ora pensavo con un certo meschino autocompiacimento che sarei stato un professore umano, avrei incoraggiato chiunque di loro avesse manifestato un sincero interesse per la materia: Storia del Medioevo, la passione dei miei anni da studente. 

Il condizionatore d’aria ronzava come un’arnia di api e donava a quel paesaggio un’illusione di tenera freschezza. Mario a tratti pareva ricordarsi della mia presenza, mi sorrideva, elogiava il paesaggio, la dolcezza delle colline sfiorate dalla luce radente del tramonto. Io ricambiavo il sorriso senza sapere cosa dire. Mi domandavo se veramente volessi fare il portaborse del professore Pontificato. Perché questo era necessario fare per lungo tempo, prima di scalare l’impervia montagna universitaria.  E poi avrei avuto il coraggio di lasciare gli amici che faticosamente mi ero fatto? Guido, Susanna, Pietro e tutti i colleghi della biblioteca per cui provavo un sentimento ambiguo di disprezzo e di tenero affetto per l’essere rassegnati, rinchiusi in quella gabbia che sapeva di carta stampata. Adelina, poi, si sarebbe mai decisa a seguirmi lontano dai genitori che, divenuti vecchi, avevano sempre più bisogno della sua assistenza, come diceva pensierosa quando doveva comunicarmi che il giorno seguente non ci saremmo visti. Parole che un tempo suscitavano in me una dolorosa gelosia e che ora invece mi procuravano un colpevole sollievo al pensiero che avrei ripreso, per un giorno soltanto, la mia vecchia abitudine della birra e del giornale nel parco. Non mi sarebbe mai stato possibile rinunciare a lei, pensavo. Non avrei potuto vivere con un’altra donna e non volevo diventare come certi professori, pallidi come rami secchi, che passavano i giorni in istituto, dediti soltanto al lavoro.

Ma come si cambia nel tempo! La nostra personalità, gli affetti, le amicizie, tutto è come un grande pastone, una frittata che sul fuoco cambia aspetto: piatta e giallastra da prima, si gonfia in tante bozze, diviene dorata e infine, se ci si attarda, brucia divenendo dura e nera. Anche noi dobbiamo indurire e annerire in quel modo? No, non avrei rinunciato a quel mondo in cui, tutto sommato, mi trovavo bene, per inseguire una sciocca ambizione.

Cabrini aveva preso a parlare delle sue aziende, che facevano grandi affari all’estero, ma che in Italia non decollavano. Marta non voleva informatizzare, robotizzare, per paura di dover licenziare. Non avendo figli, diceva, lei riponeva il suo affetto su chiunque, perfino sugli operai che, poveretti, avevano bisogno di ben altro che del suo istinto materno. Parlava dei suoi operai ora con compassione, ora con disprezzo. “E’ come in Natura, se si vuole che la pianta cresca sana, bisogna potare, potare!” Immaginavo i poveri operai appesi per le mani ai rami di una pianta gigantesca, precipitare con grida di spavento sotto le implacabili forbici di Mario. Imbruniva, l’orizzonte si era spento in un grigio cinereo. A valle un caldo vapore nascondeva la città. 

 “Da Massimo” era il migliore ristorante delle colline. Per i suoi prezzi era frequentato quasi esclusivamente dai ricchi. Quando la Maserati di Cabrini varcò il cancello della villa liberty, il caposala si affrettò a venirgli incontro con fare dignitosamente servile, dondolando il ventre prominente sotto la camicia di seta bianca e i pantaloni neri.

Lasciata l’automobile nelle mani esperte di un giovane scudiero, entrammo nella sala da pranzo, dove regnava una fresca penombra: un ambiente raffinato di piccoli tavoli quadrati alla francese, ricoperti da tovaglie di lino finemente ricamate. L’argenteria di lusso e i cristalli sui piani mandavano una luce discreta, riflettendo le lampade a centrotavola. Naturalmente non mancavano i fiori che il cameriere si premurava di portare via non appena i clienti avevano occupato le comode poltroncine.

Tra una portata e l’altra, che imbandivano senza che ordinassimo, tra un bicchiere di vino rosso d’annata e abbondante acqua minerale gassata, da me preferita a qualsiasi altra bevanda, la conversazione, o meglio il monologo di Mario continuava senza sosta: le sue preoccupazioni, la vita faticosa e infelice dell’imprenditore era seguita, quasi a compensare la sofferenza, da  minuziose descrizioni di pranzi, feste, avventure sentimentali o meglio sessuali. Un pesante torpore s'impadronì inesorabilmente del mio cervello. Le palpebre non stavano più su, la vista a tratti mi si annebbiava. Di fronte, il viso lentigginoso, abbronzato di Mario si sfocava, apparendomi come un pollo  fluttuante tra i fumi del forno.

“Ma veramente non aspettavi Susanna davanti alla lavanderia?” Questa domanda, buttata a bruciapelo in mezzo alla palude di tante inutili chiacchiere, mi riportò improvvisamente alla vigile, concreta, icastica realtà del ristorante. 

“Non vedo Susanna da quando la andai a trovare con Guido e Adelina”

“Abitava da noi. E’ scomparsa. Fa sempre così: improvvisamente ti pianta in asso e poi ricompare quando meno te lo aspetti.”

“Mi sembra di capire che sia in grave pericolo!”

“Certo, in grave pericolo” Disse pensieroso, lasciando cadere il discorso.

Quando il cameriere portò il conto, chiesi di poter offrire, ma Mario sorrise dicendo che lui pagava a sé stesso. Insomma, quel ristorante era di sua proprietà. Mi tornarono in mente le parole di Guido: “Vedi, i ricchi, i veramente ricchi, tu non immagini nemmeno che cosa possiedono. Se pensi che abbiano una fabbrica, scopri che sono padroni di ville, barche, attività strane nei posti più impensati. Quando immagini che abbiano tutte queste cose hanno invece solo debiti”.

Quando discendemmo in città, era notte fonda, quasi mezzanotte, . Mario aveva esaurito gli argomenti e taceva. Io dormivo con il capo ciondoloni a ogni curva.

 

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